20 giugno 2007

BIENNALE DANZA - THE ART OF SEDUCTION



E' più facile scrivere per parlar male che per dire bene, quindi sarò breve. Lo spettacolo di ieri sera alle Tese delle Vergini mi ha, almeno, divertito, nonostante qualche lungaggine.
Difficile classificare il genere: danza, teatro, mimica, canto, chissà. Ad una spettatrice nata nel secolo scorso come me non resta che constatare che ormai è inutile parlare di generi, la commistione e la trasversalità vanno per la maggiore. A volte, meno male, con ironia.
LIQUID LOFT - CHRIS HARING
The art of Seduction - Posing Project B

16 giugno 2007

VENEZIA BIENNALE DANZA



I
Star seduti al buio per un’ora a guardare un tarantolato che si rotola sul palcoscenico: non c’è dubbio, siamo ad uno spettacolo della Biennale Danza!
Nella generale perplessità dei convenuti, l’ artista giapponese con lunga parrucca rossa e braghesse sbrindellate mette in scena lo spettacolo del pleistocene prossimo venturo, di una post-umanità orfana di stazione eretta, di linguaggio e di socialità, sesso compreso. Il povero uomo-bestia si contorce, si trascina, sbatte le braccia, prova a muovere qualche passo sui piedi malfermi come moncherini, emette suoni inarticolati e gutturali, qualche volta ansima, o russa, prigioniero di un cerchio rosso. Gli acuti e lo sfinimento di un violino fanno da contrappunto all’inutile dibattersi.
Di fronte a tanta sofferenza vien da invocare la pietà di un gesto di eutanasia. Tormento, spasimo, flaggellazione, paura, impotenza, demenza...: c’è tutto il campionario adorniano dei mali del mondo. Perciò dichiariamo che non solo l’Arte è in lutto, ma anche la Danza.

Kaiji Moriyama
THE VELVET SUITE


II
Alle dieci de la noche tutti in fila come scolaretti alle Tese delle Vergini per la performance, che si annuncia ELETTRIZZANTE, dell’altro esponente dell’avanguardia giapponese, Fuyuki Yamakawa.
Costui è un bellissimo extraterrestre esile e grafico come un personaggio della manga, grandi occhi stilizzati e lunghissimi capelli neri che si muovono da soli, come indifferenti alla forza di gravità. Tutto ha inizio con battiti cardiaci amplificati e lampadine intermittenti, prosegue con vocalismi arcani, tubi al neon, scariche elettriche in un crescendo continuo. Fa la sua comparsa la spogliarellista underground in maschera da marziana con tanto di antenne, ed un vistoso dildo pencolante sul davanti degli slippini di lattex rosso. Anche questa femme fatale è piuttosto elettrica con tutti quei fili e quelle luci epilettiche e quei bip bip. Cosa vedo intanto sullo schermo gigante? Una operazione di plastica al seno, condotta a forza di piè di porco e camere d’aria infilate con violenza, che persino un gommista sarebbe capace di maggior delicatezza. Ma aspettate che viene il bello! Il bello è una evirazione chirurgica, cioè taglio del pisello. La vicenda, che è meglio non raccontare, si conclude in mezzo al sangue con il TOC secco del salsicciotto che cade nel bidone dei rifiuti. Oh, fine metafora!
Ma non c’è pace nelle notti veneziane. Riprende con sempre maggior parossismo l’agitarsi del performer, accompagnato sullo schermo di cui sopra da scene di maremoto e distruzione, ed ecco che torna la spogliarellista, stavolta in maschera piumata da gallina o angelo non si sa, e via che comincia a spogliarsi per davvero! Fino a rimanere nuda con soltanto due lucine rosse intermittenti sui capezzoli ed un’altra sulla sorca, che intanto si preoccupa di farci ammirare da molteplici punti di vista, nella danza sempre più forsennata.
Sarà anche avanguardia, ma sempre là si va a cadere: tette e figa, mai che a spogliarsi sia il bel ragazzo.
Alla fine il pubblico maschile applaude con calore.

Fuyuki Yamakawa
SPONTANEUS CORE

15 giugno 2007

FITNESS

Corpi, corpi, corpi: ecco le signore in perizoma modello interdentale pronte ad infilarsi nelle risicate tutine per la lezione di Pilates. Lo spogliatoio della palestra alle sei del pomeriggio sembra la cella frigorifera del reparto macelleria con tanti bei quarti di carne e grasso e ossa ammassati l’uno sull’altro. C’è tutto il campionario del genere umano provvisto di tette e ovaie, in ciarlante confusione ed in segreta reciproca osservazione ...
Eccola lì la Bionda ipertonica, assidua frequentatrice di tutti i corsi che la palestra organizza nell’arco della settimana: Step and Tone, consistente nel salire e scendere da un gradino di plastica agitando le braccia e lanciando urletti ( - giiinocchio, giiinocchio, giiinocchio - ), G.A.G che sta per Gambe-Addome-Glutei, Core Board , ultima moda di quest’anno, di incerta natura e scopo, e poi aerobica, cardiofitness, belly-dance e Kali filippino! E Yoga, per finire! La Bionda sfoggia tutto l’anno un’abbronzatura da Canarie ed una testa di ricche onde mesciate sempre a posto con qualsiasi tempo, pioggia nebbia o scirocco, con dispetto della maggior parte delle altre che si ritrova una chioma di spinaci bolliti o, peggio, di paglietta per pulitura pentole. Scalcia sotto la panca i sabot col tacco fetish e menando sinuosamente il culo esce dalla guaina dei candidi pantaloni per strizzarsi in uno dei suoi trecentossessanta completini da fitness, ogniuno dei quali composto da top con bretelline ed ampia vista sull’ombelico, fuseaux al ginocchio, scarpine assortite. Con inconfessata ma sostanziale invidia la guarda chiaccherare con le amiche, mani sui fianchi e posa plastica , contraendo i muscoli del gluteo e spostando il peso ora su una gamba ora sull’altra in una sorta di policletea ponderazione alternata, percorsa da contenuta energia ed autocompiacimento. All’occhio allenato non sfugge l’artrosica seppur leggera deformazione del ginocchio, né la cipolla che sta maturando alla base dell’alluce, segni evidenti di una stagionatura ormai in atto, nonostante i coloranti e i conservanti. Ah, che consolazione, poter godere dello scempio che il tempo compie sul corpo altrui!
C’è la Neomamma che vuol cancellare le tracce della recente gravidanza e della depressione post partum. Se ne sta tutto il tempo al cellulare con qualche sua collega del circolo Franzoni, in gravi ambascie per la tossetta del pargolo o per la giusta quantità di mela grattuggiata con cui ingozzare l’inappetente erede. Neanche fosse l’unico cucciolo d’uomo mai apparso sulla faccia della terra.
C’è la Laureanda stressata, occhiali da miope e chiappe tremule nei fanciulleschi slip coi coniglietti azzurri. In genere arriva trafelata ed incazzata, ce l’ha col professore che gli ha dato buca, col computer che fa le bizze, con la compagna di stanza che non ha fatto la spesa, e con tutto il resto del mondo a prescindere.
La Sciampista è giovane e carina, beata lei. Sfoggia un pancino piatto piatto tra due sottili fianchi efebici, e piccoli seni delicati. Dopo una giornata a lavar teste ha ancora voglia dopo la doccia di tirarsi i capelli con il phon, per farli lisci. Ne va della sua vita.
La Tatuata arriva con tintinnar di bracciali e cavigliere. Porta larghi pantaloni color arancio a vita bassissima e una fascia che le copre appena il seno. All’ombelico occhieggia un piercing di finto diamante ed anellini di varie dimensioni sono appesi ai lobi, al sopracciglio, alla narice e financo alla lingua. Un nero rameggio esce dal suo succinto corpetto, risale la scapola e la spalla , si attorciglia in complicati girali sul grazioso omero e infine va a morire poco sopra il gomito in un ultimo ricciolo.
Meno male che c’è la Pensionata irriducibile ed atletica a sfatare le più cupe previsioni di decadenza prossima ventura. A dispetto di una faccia da tartaruga e di una pelle di cartapecora, ha un corpo agile e muscoloso, ed esegue tutti gli esercizi senza apparente fatica, che neanche tante ragazze.
E poi c’è Lei, con i suoi pantalonacci di felpa grigia comprati al mercato e la maglietta girocollo due taglie più grande, per nascondere la pancia messa su nei mesi scorsi.
E via tutte a prender posto sui materassini, con accanto la bottiglia dell’acqua per il fabbisogno quotidiano che la tivvù non smette di predicare: un litro e mezzo al giorno! Tutti i giorni! Se non garantisce una vita eterna, almeno stimola la diuresi.
Segue un’ora di stiracchiamenti, contorcimenti, allungamenti, contrazioni di muscoli addominali e adduttori, scrocchiare di cervicali e coccigi, ed infine i meritati, sudati, agognati cinque minuti di relax. Da morire.

10 giugno 2007

CRONACHE DALLA BIENNALE




Sono tornati.
Sono scesi sulla città in nugoli e strormi come un fragello biblico, vomitati dalle viscere di aerei argentei, di treni e navi e shuttles e torpedoni. Sciamano nei campi e nelle calli, penetrano i più oscuri orifizi della città distratta, colonizzando camere d’albergo, di pensione, di locanda, di bedandbrekfast, abusivo o meno, e giù giù fino all’ultimo pidocchioso materasso a scrocco.
Migrano in vocianti branchi sulle tracce di uno o l’altro dei guru del momento, da un evento all’altro, da una performance all’altra, da una proiezione all’altra. I guru sono sostanzialmente di due specie, riconoscibili dalla mise: c’e la specie dei biancovestiti, in abito di lino con giacca destrutturata, panama d’ordinanza, occhiali tondi di oro o corno, chioma canuta se non rasata; e c’è la specie dei nerovestiti, questi ultimi ormai un po’ out, nelle loro lugubri giacche a trequarti col collo all’orientale, pantaloni a sigaretta da cui fuoriescono come siluri le scarpe appuntite, e capelli di un’improbabile tonalità corvina spartiti nel mezzo e ricadenti ai lati delle incavate guance in lunghe bande rettilinee.
Seguendo questi monocromi capobranco le variopinte torme svolazzano da un’isola all’altra, planano sulle terrazze dei ristoranti, sui buffets dei vernissages, nei saloni del palazzo dove la stilista mecenate sta dando la Festa dell’anno. Come cavallette si posano su tramezzini e carpacci, su risottini e fritture, alla peggio su salatini ed olive, o almeno sui bicchieri del prosecco, lasciandosi dietro, nella repentina partenza verso altre liturgie inauguranti, il deserto. Fateci caso, la componente femminile di questa varia umanità, in rapporto di sette o otto per ogni maschio, ha un’età media non superiore ai venticinque: si sa che l’Arte vuole pennello vecchio e tavolozza fresca! Queste tavolozze se ne vanno in giro al calar della sera con le loro minuscole borsine a pochette, la sciarpa di seta negligentemente di traverso sulla spalla, le bretelline del tubino tempestate di strass tese dal peso delle tette, ondeggiando pericolosamente in bilico sui sandali dorati. E, come direbbe Alexander Portnoy, sotto ogni tubino c’è una gnocca!
Ma, brave bambine, riappaiono il mattino verso le undici, pronte a confondersi con la folla che s’appresta agli ingressi dell’Arsenale o dei Giardini, decise ad elevare il proprio spirito nel simbiotico contatto con le Opere, o almeno a procurarsi qualcosa per riempire di brillanti ciarle le pause tra uno spritz e l’altro, stasera. Quindi eccole qui in tenuta da giorno, canottierina, gonnellona ed infradito, la borsa rossoverde di cirè col motto della Mostra ("pensa con i sensi – senti con la mente") col loro accredito ben visibile sul palpitante petto.
Ah, l’ACCREDITO! Quest’oggetto del desiderio, questo spartiacque tra l’esser-ci e il non-esser-ci, questo contagiri della propria affermazione sociale, questo indicatore di certezze identitarie, questo fottuto cartellino che certifica l’appartenenza al mondo della Stampa , della Critica, del Mercato dell’arte di cani e porci e ragazzette e giapponesi e no-global e adolescenti coi bermuda e signore ben sposate. Praticamente chiunque, tranne TE.
Ma ecco far la sua comparsa a sorpresa la performer tenebrosa, capello fluente e zatteroni color malva, vestita con le tende del salotto della zia in vari strati sovrapposti e pencolanti. Il passaparola attira l’attenzione sulla capace e pesante borsa con manico ad anelli che tiene sotto il braccio: coltelli? lamette? chiodi? corde? Un brivido di dilettevole orrore percorre le spine dorsali degli astanti, tutti segretamente combattuti tra contrastanti pulsioni primarie: stare a guardare, o mettersi in salvo?

5 marzo 2007

ANDAR PER MOSTRE A BARCELLONA II^


HAMMERSHOI-DREYER, presso il CCCB.

La mostra mette a confronto la pittura di Hammershoi (Danimarca, fine 800) e la cinematografia di Dreyer (Danimarca, anni '30) rilevando nella prima la fonte di ispirazione delle immagini della seconda. Si possono vedere spezzoni di films del regista (a noi è piaciuto molto "Vampiri") e una trentina di opere del pittore, tra ritratti, interni, paesaggi. Vi è in effetti lo stesso interesse per la luce: luce fredda, rarefatta del Nord, interni silenziosi, vuoti, poche figure e oggetti su cui sembra posarsi, con la luce, la polvere.

La pittura di Hammershoi è affascinante, evocativa di un mondo borghese austero e calvinista, lontanissimo dalla vocazione mediterranea per le passioni ed il melodramma. Eppure sotto la superficie diafana delle cose, dei volti, si percepisce il pulsare segreto della vita. Vi è enigma nella figura femminile che ci volge le spalle, chiusa nel nero vestito che lascia libero soltanto il tenero collo. Intriga l'apparente assenza di colore: il bianco, il nero, i grigi, qualche macchia di marrone, colori pastosi che lasciano indovinare, attraverso la trama delle pennellate, le sottostanti stesure più chiare o più scure, con un "effetto polvere" che a me piace molto. Effetto ripreso dall'allestimento, che si avvale di pannelli ricoperti di una sorta di carta di riso grigia che rende lo spazio come ovattato.

Il pittore dà il meglio quando fa sì che la luce sia la vera protagonista del dipinto: un raggio che entra da una finestra e ne proietta il disegno a riquadri dell'intelaiatura sul pavimento. E' molto forte il ricordo di Vermeer, che a volte diventa vera e propria citazione.

Da non perdere se siete a Barcellona.

27 febbraio 2007

Andando per mostre a Barcellona

GALLERIA MAEGHT, vicino al museo Picasso.
Splendido palazzo cinquiecentesco. La sala è grande, bianca e vuota di esseri viventi, a parte me, seduta proprio al centro su un puff di pelle. Intorno, opere di ANTONI AMAT, perlopiù tecniche miste, acrilico e cemento: rosso e grigio e nero, blu e arancio e grigio e nero, sbreghi nel cemento che lasciano apparire il colore steso sul pannello. Non mi producono vibrazioni nè di tipo visivo-percettivo nè, tantomeno, di tipo emozionale o intellettivo. Il gioco tra superfici colore e spazio si ripete in combinazioni diverse ma, infine, sempre uguali.
Accanto al pannello che ho di fronte, 122x100, il prezzo: 5000 euro.

4 febbraio 2007

Reality-smo


Dal momento che non c'è una telecamera a registrarlo, mi chiedo se ci sono prove che sto vivendo. Come ho fatto a percorrere quasi un'intera vita: infanzia da bambina del dopoguerra, adolescenza anni sessanta/settanta, amori, fidanzamento, matrimonio e poi di nuovo single, senza dichiarazioni TV, pubbliche confessioni e pubbliche smentite? Senza lacrime in diretta. Senza lettere a Repubblica. E' un mistero che la mia esistenza sia così emozionante nonostante l'assenza, intorno, di un teatrino e titoli che scorrono. Lo ammetto, sono una che sta fuori dalla reality-tà, poveretta *. Cosa di cui non frega niente a nessuno, e men che meno a me.
C'è del buono in questo:
a) la reality-tà mi ispira una gran noia, uno sbadiglio infinito, una repulsione senza attenuanti;
b) non mi si potrà accusare, un giorno, di aver dato una mano ad alimentare il gran brodo della volgarità e dell'insignificanza;
c) sto in pace con me stessa in questo posticino che la massa (il gregge) ignora, così poco frequentato che vi è ancora possibile un pò di silenzio, e mi leggo un buon libro bevendo il tè, dipingo e ascolto la mia musica. La vita non è male!
d) con discrezione, mi sento libera di essere come sono, e di pensare.

* sul termine reality-tà voglio il marchio registrato.


30 gennaio 2007

La fine dell'arte?




Nella rubrica "Lettere" di La Repubblica delle donne di qualche settimana fa, Umberto Galimberti ha pubblicato la lettera di una signora, sconcertata per aver visto esposti al MADRE di Napoli, nelle sale dedicate a Kounellis, uccellini vivi in gabbia. L'opinione della signora era che questa non possa essere considerata un'opera d'arte.
La questione è interessante, così come la risposta di Galimberti, per quanto non la condivida totalmente. Egli afferma, infatti, che l'arte muore perchè oggi gli artisti cercano l'allettamento dei sensi; non la profondità ma lo stupore o il divertimento.
Io non credo che l'arte sia morta e non credo morirà, almeno finchè esisteranno gli umani: nel mondo post-umano, si vedrà. Nata con l'uomo stesso, risponde evidentemente a bisogni profondi, e accompagna la ricerca di una risposta all'angoscia della finitezza, della mortalità. Nel-l' arte, è vero, sono state messe in gioco la vita, la morte, la dimensione del sacro, del mistero, dell'assoluto. Tuttavia le modalità di questa ricerca sono state le più diverse, tanto che l'arte sfugge ad ogni definizione, poichè sempre ha espresso l'anima del suo tempo. E infatti l'arte contemporanea è perfettamente in grado di esprimere il mondo in cui viviamo: un mondo mercantile e cinico produce un'arte mercantile e cinica. Al pari di quanto avviene per qualsiasi altra merce, l'opera d'arte non ha, o non ha più, un valore intrinseco, dovuto alla qualità e quantità del lavoro occorso per crearla, o alla preziosità dei materiali, e men che meno questo valore proviene dalla capacità del suo artefice di farsi interprete di idee o sentimenti universali: il suo non è altro che un valore di scambio, quindi convenzionale, dettato dalle relazioni sociali e soggetto ai meccanismi del cosiddetto ciclo della produzione artistica, di cui fanno parte critici, galleristi, mercanti, musei, riviste specializzate e media di ogni tipo. Pertanto si possono esporre come opera d'arte uccellini vivi, o qualsiasi altro tipo di ready-made, poichè ciò che oggi conta non è la creazione, che implica il fare e il trasformare (in questo Galimberti ha ragione), ma l'idea. Non l'Idea intesa in senso platonico, ma la trovata, la novità, la curiosità, la provocazione e, se serve, anche lo scandalo.
Paradossalmente, nel momento in cui si compie la divinizzazione dell'artista, il "genio" romantico in grado di elevarsi al di sopra del comune sentire e di farsi mediatore tra noi e l'infinito non perchè fa ma perchè è, proprio nel momento in cui sembrano abolite le regole che ne hanno limitato la libertà, adesso che si è affrancato dal giogo della tecnica, proprio ora l'artista dimostra la sua marginalità, anzi la sua inutilità, poichè egli, spesso, non fa altro che illustrare le idee del critico o del gallerista, inseguendo un target. Warhol nasce come pubblicitario. Ecco quello che serve oggi al successo di un'opera: del buon marketing.
Venuto meno il valore del simbolo, l'opera è sempre di più status-simbol. Come una pelliccia o un'automobile, purchè molto costose, e per pochi eletti: gente colta, che capisce e sa scegliere.
In ogni caso, mi sembra che tutto questo rincorrere il Nuovo produca solo noia poichè si basa sul consumismo e non già sull' amore per le sensazioni, come afferma Galimberti. Anzi, sensazioni, stupore, emozioni sono bandite, e tutto sembra già visto prima: le immagini delle solite videoinstallazioni che infestano le varie biennali e che la maggior parte del pubblico non guarda più; i tubi di plastica appoggiati alla parete di una grande stanza bianca, peraltro vuota; le frasi scritte col neon; i cavalli vivi; le pantegane giganti di plastica (ma almeno quelle erano divertenti); il letto sfatto condito di preservativi e tampax "dove l'artista ha meditato il suicidio", ci spiegano le guide (sublime!); la montagna di stracci; e tutto quello che non riusciamo a ricordare perchè inghiottito dal gigantesco blob dell'insignificanza. L'arte non è finita, ma c'è in giro della pessima arte, secondo me. Non voglio affermare che il criterio estetico debba tornare ad essere quello della piacevolezza, voglio dire che sento ancora il bisogno di un linguaggio simbolico. La mia fonte di ispirazione è il pensiero della morte, la vanità dell'esistenza? Sembra assodato che per affrontare questo tema io debba farmi fare una radiografia del cranio a raggi infrarossi di dimensioni monumentali ed esporla con un titolo adeguatamente complicato e incoerente, o chiudere un pollo squartato in una teca di plexiglass. Forse sarebbe ancora più cool suicidarmi in diretta, assistita dal critico più in, davanti ad un pubblico very sofisticated, nella galleria più trendy di downtown. Che performance! Body-art più bloody-art, più trash, più estetica del seppellimento, e un di realitysmo, tanto per contribuire alla contaminazione dei generi.
Invece a me piace la pittura. Mi piace guardarla e mi piace farla. Mi piace sporcarmi le mani, mi piace il gesto con cui stendo il colore sulla tela, più forte o più leggero, pennello fino pennello grosso, odore di trementina, grembiule macchiato, tubetti in disordine nella scatola e uno sbaffo di giallo sul naso. Mi piace scoprire di aver migliorato la mia tecnica e di aver dato vita a forme significative. Mi piace fare.
Il tempo del fare è tempo salvato, stanca l'occhio e il braccio ma cura l'anima. No, l'arte non è riposante, ma ugualmente lenisce e consola.


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16 gennaio 2007

Del non-finito


Spesso mi domando, nel lavorare ad un dipinto, se sia bene lasciare parti non terminate. Il fatto è che le ultime cose che ho realizzato mi sono sembrate più significative e più "forti" in itinere che una volta concluse, come se avessero smesso di parlare o assunto una distanza siderale. Però ci vuole coraggio per non riempire di colore tutta la tela: sembra facile, ma non lo è, e non solo per un problema di convenzioni. A mio modo di intendere, non si tratta di interrompere il lavoro lasciando al caso o al buon gusto compositivo una parte di esso, bensì di stabilire un rapporto tra la materia grezza o sbozzata (l'imprimitira, l'abbozzo che ha valore di idea, di progetto) e l'immagine finita (che diventa realtà creata, conclusa, ineluttabile). Vorrei trovare un punto di equilibrio tra queste due modalità dell'opera. Vorrei trovare una soluzione che parta da una riflessione sul linguaggio pittorico stesso, e che approdi al un esito di "modernità".
Recentemente ho imposto una virata al mio modo di lavorare, scegliendo tele più grandi, pennelli più grossi e rigidi, una pittura più veloce e di impronta più drammatica. Le Nature Morte di qualche tempo fa non lasciavano certo spazio all'idea del non-finito, non tanto per coerenza tecnica o stilistica, quanto per esigenze espressive: il silenzio degli oggetti, il loro perdurare fuori del tempo, la lontananza da ciò che vive e muore, le passioni decantate fino al distacco... Tutto ciò non mi basta più. C'è qualcosa che mi preme, non ho più tempo per l'osservazione lenticolare e virtuosistica, il lavoro di fino: voglio esprimermi con più forza e anche evitare di ripetermi. In fondo ho già dimostrato di saper rendere con precisione le pieghe di un tessuto, il riflesso di un vetro, la lucentezza e l'opacità, la trasparenza. Perciò, basta!
Naturalmente parlando di non finito ho in mente il più illustre degli esempi, Michelangelo: consapevolezza di una perfezione irraggiungibile, tensione, valorizzazione del processo artistico come percorso spirituale, insoddifazione e tormento interiore, impazienza dell'artista (Artista) in preda al furor. Interpretazioni.
Secondo Alessandra (17 anni, quarta liceo) il non finito "serve a instaurare un dialogo con l'osservatore, il quale ha la facoltà di attivare la sua immaginazione e di sentirsi coinvolto nell'attività creatrice". Son cose che inventano gli studenti quando li si coglie impreparati ma... perchè no? Non sta anche in ciò il fascino che esercitano su di noi lo Schiavo che si sveglia, o la Pietà Rondanini?
Nicolaas, che parla un buffo italiano, confonde spesso il termine infinito con non-finito, e io lo correggo. Ma si tratta davvero di un errore? Ci sono, tra i due termini, dei punti di contiguità, poichè ciò che è esente da limiti può anche presentarsi come incompiuto, sospeso, imperfetto, incompleto. E se il non- finito fosse il linguaggio dell'infinito?

6 gennaio 2007

Partenze ,ritorni e altre partenze

Eccomi di nuovo qui. Ritorno alla routine dopo un periodo sabbatico in cui mi sono dedicata ad altro: le feste in famiglia, Caterina, un viaggio in Andalusia. Bilanci non ne faccio, forse qualche etto messo su a furia di tapas e panettoni, un pò di senso di colpa per troppe cose trascurate, tristezza anche perchè come sempre è arrivato il momento di vedere una figlia amata ripartire. Mi sembra di non aver sfruttato abbastanza questo tempo: forse avrei fatto meglio a rinunciare alla vacanza e rimanere qui a dipingere, scrivere, pensare, godermi qualche momento in più con lei. Ma insomma, almeno ho imparato che non sempre viaggiare porta da qualche parte. Dovrei chiedermi cos'è essenziale per me, come se ogni giorno dovesse essere l'ultimo e non ci fosse tempo per altro che non sia davvero importante. Il fatto è che temo il Capodanno, ed ogni anno cerco di eluderne la malinconia fuggendo altrove.
Cordoba, sera del 31 dicembre, in una camera d'albergo surriscaldata, infastidita dal raffreddore:

E' lento
l'ultimo pomeriggio dell'anno
ora molesta e pigra che a stento
si fa tarda.
Un sonno di febbre traspira
voci sconosciute.
Ma se l'idioma che sento
è straniero - lo so-
la fuga non cancella
il computo del tempo
semmai la vita appare strana
scandita da un ritmo provvisorio
un venir meno di abitudini
un giudizio sospeso che non salva.
Meglio sarebbe
farsi sasso di fiume
solo sfiorato dal gran fluire.
Dirsi: non è che un momento
come altri prima di questo
o dopo.
E nell'immenso rotolare
tremare appena.
Non per paura: quale sentenza
vuoi che ci aspetti?
Necessità governa ciò che è stato
ignoranza ciò che sarà.
Fuori
nell'ombra che s'addensa
Saturno continua il suo banchetto.
.
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Comunque a Granada ho visto l'Alhambra, magnifica! Sindrome di Stendhal, mi sono scese le lacrime per l'emozione. Luce acqua spazio, ed una civiltà raffinatissima e sapiente, cui m'inchino. Certo le cose da ricordare sono molte ma non è mia intenzione elencarle. Voglio però suggerire a chi capitasse a Siviglia di non trascurare l'Hospital de la Caritad: all'interno della chiesa (bell'esempio di barocco) opere di Murillo ma soprattutto due vanitas di Juan de Valdes Leal, una vera sorpresa.