30 gennaio 2007

La fine dell'arte?




Nella rubrica "Lettere" di La Repubblica delle donne di qualche settimana fa, Umberto Galimberti ha pubblicato la lettera di una signora, sconcertata per aver visto esposti al MADRE di Napoli, nelle sale dedicate a Kounellis, uccellini vivi in gabbia. L'opinione della signora era che questa non possa essere considerata un'opera d'arte.
La questione è interessante, così come la risposta di Galimberti, per quanto non la condivida totalmente. Egli afferma, infatti, che l'arte muore perchè oggi gli artisti cercano l'allettamento dei sensi; non la profondità ma lo stupore o il divertimento.
Io non credo che l'arte sia morta e non credo morirà, almeno finchè esisteranno gli umani: nel mondo post-umano, si vedrà. Nata con l'uomo stesso, risponde evidentemente a bisogni profondi, e accompagna la ricerca di una risposta all'angoscia della finitezza, della mortalità. Nel-l' arte, è vero, sono state messe in gioco la vita, la morte, la dimensione del sacro, del mistero, dell'assoluto. Tuttavia le modalità di questa ricerca sono state le più diverse, tanto che l'arte sfugge ad ogni definizione, poichè sempre ha espresso l'anima del suo tempo. E infatti l'arte contemporanea è perfettamente in grado di esprimere il mondo in cui viviamo: un mondo mercantile e cinico produce un'arte mercantile e cinica. Al pari di quanto avviene per qualsiasi altra merce, l'opera d'arte non ha, o non ha più, un valore intrinseco, dovuto alla qualità e quantità del lavoro occorso per crearla, o alla preziosità dei materiali, e men che meno questo valore proviene dalla capacità del suo artefice di farsi interprete di idee o sentimenti universali: il suo non è altro che un valore di scambio, quindi convenzionale, dettato dalle relazioni sociali e soggetto ai meccanismi del cosiddetto ciclo della produzione artistica, di cui fanno parte critici, galleristi, mercanti, musei, riviste specializzate e media di ogni tipo. Pertanto si possono esporre come opera d'arte uccellini vivi, o qualsiasi altro tipo di ready-made, poichè ciò che oggi conta non è la creazione, che implica il fare e il trasformare (in questo Galimberti ha ragione), ma l'idea. Non l'Idea intesa in senso platonico, ma la trovata, la novità, la curiosità, la provocazione e, se serve, anche lo scandalo.
Paradossalmente, nel momento in cui si compie la divinizzazione dell'artista, il "genio" romantico in grado di elevarsi al di sopra del comune sentire e di farsi mediatore tra noi e l'infinito non perchè fa ma perchè è, proprio nel momento in cui sembrano abolite le regole che ne hanno limitato la libertà, adesso che si è affrancato dal giogo della tecnica, proprio ora l'artista dimostra la sua marginalità, anzi la sua inutilità, poichè egli, spesso, non fa altro che illustrare le idee del critico o del gallerista, inseguendo un target. Warhol nasce come pubblicitario. Ecco quello che serve oggi al successo di un'opera: del buon marketing.
Venuto meno il valore del simbolo, l'opera è sempre di più status-simbol. Come una pelliccia o un'automobile, purchè molto costose, e per pochi eletti: gente colta, che capisce e sa scegliere.
In ogni caso, mi sembra che tutto questo rincorrere il Nuovo produca solo noia poichè si basa sul consumismo e non già sull' amore per le sensazioni, come afferma Galimberti. Anzi, sensazioni, stupore, emozioni sono bandite, e tutto sembra già visto prima: le immagini delle solite videoinstallazioni che infestano le varie biennali e che la maggior parte del pubblico non guarda più; i tubi di plastica appoggiati alla parete di una grande stanza bianca, peraltro vuota; le frasi scritte col neon; i cavalli vivi; le pantegane giganti di plastica (ma almeno quelle erano divertenti); il letto sfatto condito di preservativi e tampax "dove l'artista ha meditato il suicidio", ci spiegano le guide (sublime!); la montagna di stracci; e tutto quello che non riusciamo a ricordare perchè inghiottito dal gigantesco blob dell'insignificanza. L'arte non è finita, ma c'è in giro della pessima arte, secondo me. Non voglio affermare che il criterio estetico debba tornare ad essere quello della piacevolezza, voglio dire che sento ancora il bisogno di un linguaggio simbolico. La mia fonte di ispirazione è il pensiero della morte, la vanità dell'esistenza? Sembra assodato che per affrontare questo tema io debba farmi fare una radiografia del cranio a raggi infrarossi di dimensioni monumentali ed esporla con un titolo adeguatamente complicato e incoerente, o chiudere un pollo squartato in una teca di plexiglass. Forse sarebbe ancora più cool suicidarmi in diretta, assistita dal critico più in, davanti ad un pubblico very sofisticated, nella galleria più trendy di downtown. Che performance! Body-art più bloody-art, più trash, più estetica del seppellimento, e un di realitysmo, tanto per contribuire alla contaminazione dei generi.
Invece a me piace la pittura. Mi piace guardarla e mi piace farla. Mi piace sporcarmi le mani, mi piace il gesto con cui stendo il colore sulla tela, più forte o più leggero, pennello fino pennello grosso, odore di trementina, grembiule macchiato, tubetti in disordine nella scatola e uno sbaffo di giallo sul naso. Mi piace scoprire di aver migliorato la mia tecnica e di aver dato vita a forme significative. Mi piace fare.
Il tempo del fare è tempo salvato, stanca l'occhio e il braccio ma cura l'anima. No, l'arte non è riposante, ma ugualmente lenisce e consola.


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16 gennaio 2007

Del non-finito


Spesso mi domando, nel lavorare ad un dipinto, se sia bene lasciare parti non terminate. Il fatto è che le ultime cose che ho realizzato mi sono sembrate più significative e più "forti" in itinere che una volta concluse, come se avessero smesso di parlare o assunto una distanza siderale. Però ci vuole coraggio per non riempire di colore tutta la tela: sembra facile, ma non lo è, e non solo per un problema di convenzioni. A mio modo di intendere, non si tratta di interrompere il lavoro lasciando al caso o al buon gusto compositivo una parte di esso, bensì di stabilire un rapporto tra la materia grezza o sbozzata (l'imprimitira, l'abbozzo che ha valore di idea, di progetto) e l'immagine finita (che diventa realtà creata, conclusa, ineluttabile). Vorrei trovare un punto di equilibrio tra queste due modalità dell'opera. Vorrei trovare una soluzione che parta da una riflessione sul linguaggio pittorico stesso, e che approdi al un esito di "modernità".
Recentemente ho imposto una virata al mio modo di lavorare, scegliendo tele più grandi, pennelli più grossi e rigidi, una pittura più veloce e di impronta più drammatica. Le Nature Morte di qualche tempo fa non lasciavano certo spazio all'idea del non-finito, non tanto per coerenza tecnica o stilistica, quanto per esigenze espressive: il silenzio degli oggetti, il loro perdurare fuori del tempo, la lontananza da ciò che vive e muore, le passioni decantate fino al distacco... Tutto ciò non mi basta più. C'è qualcosa che mi preme, non ho più tempo per l'osservazione lenticolare e virtuosistica, il lavoro di fino: voglio esprimermi con più forza e anche evitare di ripetermi. In fondo ho già dimostrato di saper rendere con precisione le pieghe di un tessuto, il riflesso di un vetro, la lucentezza e l'opacità, la trasparenza. Perciò, basta!
Naturalmente parlando di non finito ho in mente il più illustre degli esempi, Michelangelo: consapevolezza di una perfezione irraggiungibile, tensione, valorizzazione del processo artistico come percorso spirituale, insoddifazione e tormento interiore, impazienza dell'artista (Artista) in preda al furor. Interpretazioni.
Secondo Alessandra (17 anni, quarta liceo) il non finito "serve a instaurare un dialogo con l'osservatore, il quale ha la facoltà di attivare la sua immaginazione e di sentirsi coinvolto nell'attività creatrice". Son cose che inventano gli studenti quando li si coglie impreparati ma... perchè no? Non sta anche in ciò il fascino che esercitano su di noi lo Schiavo che si sveglia, o la Pietà Rondanini?
Nicolaas, che parla un buffo italiano, confonde spesso il termine infinito con non-finito, e io lo correggo. Ma si tratta davvero di un errore? Ci sono, tra i due termini, dei punti di contiguità, poichè ciò che è esente da limiti può anche presentarsi come incompiuto, sospeso, imperfetto, incompleto. E se il non- finito fosse il linguaggio dell'infinito?

6 gennaio 2007

Partenze ,ritorni e altre partenze

Eccomi di nuovo qui. Ritorno alla routine dopo un periodo sabbatico in cui mi sono dedicata ad altro: le feste in famiglia, Caterina, un viaggio in Andalusia. Bilanci non ne faccio, forse qualche etto messo su a furia di tapas e panettoni, un pò di senso di colpa per troppe cose trascurate, tristezza anche perchè come sempre è arrivato il momento di vedere una figlia amata ripartire. Mi sembra di non aver sfruttato abbastanza questo tempo: forse avrei fatto meglio a rinunciare alla vacanza e rimanere qui a dipingere, scrivere, pensare, godermi qualche momento in più con lei. Ma insomma, almeno ho imparato che non sempre viaggiare porta da qualche parte. Dovrei chiedermi cos'è essenziale per me, come se ogni giorno dovesse essere l'ultimo e non ci fosse tempo per altro che non sia davvero importante. Il fatto è che temo il Capodanno, ed ogni anno cerco di eluderne la malinconia fuggendo altrove.
Cordoba, sera del 31 dicembre, in una camera d'albergo surriscaldata, infastidita dal raffreddore:

E' lento
l'ultimo pomeriggio dell'anno
ora molesta e pigra che a stento
si fa tarda.
Un sonno di febbre traspira
voci sconosciute.
Ma se l'idioma che sento
è straniero - lo so-
la fuga non cancella
il computo del tempo
semmai la vita appare strana
scandita da un ritmo provvisorio
un venir meno di abitudini
un giudizio sospeso che non salva.
Meglio sarebbe
farsi sasso di fiume
solo sfiorato dal gran fluire.
Dirsi: non è che un momento
come altri prima di questo
o dopo.
E nell'immenso rotolare
tremare appena.
Non per paura: quale sentenza
vuoi che ci aspetti?
Necessità governa ciò che è stato
ignoranza ciò che sarà.
Fuori
nell'ombra che s'addensa
Saturno continua il suo banchetto.
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Comunque a Granada ho visto l'Alhambra, magnifica! Sindrome di Stendhal, mi sono scese le lacrime per l'emozione. Luce acqua spazio, ed una civiltà raffinatissima e sapiente, cui m'inchino. Certo le cose da ricordare sono molte ma non è mia intenzione elencarle. Voglio però suggerire a chi capitasse a Siviglia di non trascurare l'Hospital de la Caritad: all'interno della chiesa (bell'esempio di barocco) opere di Murillo ma soprattutto due vanitas di Juan de Valdes Leal, una vera sorpresa.