10 giugno 2007

CRONACHE DALLA BIENNALE




Sono tornati.
Sono scesi sulla città in nugoli e strormi come un fragello biblico, vomitati dalle viscere di aerei argentei, di treni e navi e shuttles e torpedoni. Sciamano nei campi e nelle calli, penetrano i più oscuri orifizi della città distratta, colonizzando camere d’albergo, di pensione, di locanda, di bedandbrekfast, abusivo o meno, e giù giù fino all’ultimo pidocchioso materasso a scrocco.
Migrano in vocianti branchi sulle tracce di uno o l’altro dei guru del momento, da un evento all’altro, da una performance all’altra, da una proiezione all’altra. I guru sono sostanzialmente di due specie, riconoscibili dalla mise: c’e la specie dei biancovestiti, in abito di lino con giacca destrutturata, panama d’ordinanza, occhiali tondi di oro o corno, chioma canuta se non rasata; e c’è la specie dei nerovestiti, questi ultimi ormai un po’ out, nelle loro lugubri giacche a trequarti col collo all’orientale, pantaloni a sigaretta da cui fuoriescono come siluri le scarpe appuntite, e capelli di un’improbabile tonalità corvina spartiti nel mezzo e ricadenti ai lati delle incavate guance in lunghe bande rettilinee.
Seguendo questi monocromi capobranco le variopinte torme svolazzano da un’isola all’altra, planano sulle terrazze dei ristoranti, sui buffets dei vernissages, nei saloni del palazzo dove la stilista mecenate sta dando la Festa dell’anno. Come cavallette si posano su tramezzini e carpacci, su risottini e fritture, alla peggio su salatini ed olive, o almeno sui bicchieri del prosecco, lasciandosi dietro, nella repentina partenza verso altre liturgie inauguranti, il deserto. Fateci caso, la componente femminile di questa varia umanità, in rapporto di sette o otto per ogni maschio, ha un’età media non superiore ai venticinque: si sa che l’Arte vuole pennello vecchio e tavolozza fresca! Queste tavolozze se ne vanno in giro al calar della sera con le loro minuscole borsine a pochette, la sciarpa di seta negligentemente di traverso sulla spalla, le bretelline del tubino tempestate di strass tese dal peso delle tette, ondeggiando pericolosamente in bilico sui sandali dorati. E, come direbbe Alexander Portnoy, sotto ogni tubino c’è una gnocca!
Ma, brave bambine, riappaiono il mattino verso le undici, pronte a confondersi con la folla che s’appresta agli ingressi dell’Arsenale o dei Giardini, decise ad elevare il proprio spirito nel simbiotico contatto con le Opere, o almeno a procurarsi qualcosa per riempire di brillanti ciarle le pause tra uno spritz e l’altro, stasera. Quindi eccole qui in tenuta da giorno, canottierina, gonnellona ed infradito, la borsa rossoverde di cirè col motto della Mostra ("pensa con i sensi – senti con la mente") col loro accredito ben visibile sul palpitante petto.
Ah, l’ACCREDITO! Quest’oggetto del desiderio, questo spartiacque tra l’esser-ci e il non-esser-ci, questo contagiri della propria affermazione sociale, questo indicatore di certezze identitarie, questo fottuto cartellino che certifica l’appartenenza al mondo della Stampa , della Critica, del Mercato dell’arte di cani e porci e ragazzette e giapponesi e no-global e adolescenti coi bermuda e signore ben sposate. Praticamente chiunque, tranne TE.
Ma ecco far la sua comparsa a sorpresa la performer tenebrosa, capello fluente e zatteroni color malva, vestita con le tende del salotto della zia in vari strati sovrapposti e pencolanti. Il passaparola attira l’attenzione sulla capace e pesante borsa con manico ad anelli che tiene sotto il braccio: coltelli? lamette? chiodi? corde? Un brivido di dilettevole orrore percorre le spine dorsali degli astanti, tutti segretamente combattuti tra contrastanti pulsioni primarie: stare a guardare, o mettersi in salvo?

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